Gli scarponi

Gli scarponi

E’ proprio su uno dei “nostri” sentieri, denominato Genesio Forni, su una via dei Walser che nel dicembre del 1946 perse la vita, travolto da una valanga il ragazzo sopracitato a cui abbiamo dedicato nel 2018 il sentiero. Genesio aveva appunto affrontato il viaggio per guadagnare il denaro necessario all’acquisto di un paio di scarponi nuovi.

Questo ci fa capire come fosse importante questa ”arma”  che bisognava trattare bene per far si che durasse a lungo. In certe famiglie infatti, composte magari da una decina di persone, si possedevano solo tre o quattro paia di scarponi che venivano usati a turno come ben descritto nel libro:

“1933 -2013 Otto ottant’anni dopo…..” di Ferruccio Del Zoppo

“Gli scarponi – Quegli scarponi che tanto avevano cantato e fatto cantare, schiacciandola, la neve con quel rumore di sughero strofinato adesso erano loro ad essere schiacciati dalla pesante neve e non emettevano più alcun rumore, nessun canto. La scarpa, eh si, una volta forse non sapevi di che colore erano gli occhi di una persona perché lo sguardo era sempre basso, ma la scarpa….tutti si riconoscevano dalle scarpe e quindi sapevi, vedendone anche una sola, chi avesse il piede dentro. Forse è meglio dire scarponi che scarpa nel nostro caso.

Si perché lo scarpone aveva una faccia, un colore, una forma, un odore, si un odore che era un profumo, non come i nostri di oggi tutta plastica e altri materiali termici sintetici: non passa il freddo, non passa l’acqua, non ci passa attraverso niente e quindi non passa più niente anche verso l’esterno, per cui quando togli sono “bombe”…..quelle si che hanno un odore!!

Ma quello scarpone, invece, anche quando poche volte o per poco tempo restava in casa, emanava il suo profumo di cuoio vero e grasso di maiale “sunja”. Erano poche le volte in cui rimaneva in casa perché, a quei tempi, aveva due o anche tre proprietari e quindi, se qualcuno rimaneva in casa, lo scarpone usciva subito con un altro, fratello o padre, ma anche sorella.

Famiglie di dieci o dodici figli con due o tre paia di scarpe soltanto.

Aah…la scarpa! Quante scarpinate…..

Alla fine si “scarpava”, ma molto tardi e se qualcuno “se ne andava” prima, lo scarpone restava qua per essere usato ancora, per far ancora uscire in inverno, calpestando la neve, quella musica, quel rumore di sughero strofinato. E in estate? la stessa musica:forse il suono assomigliava più a un crepitio di fuoco o ad un tamburello che batteva tenendo il tempo in banda. Anche se segnato e modellato dalle forme e un po’ vecchio si adattava subito al giovane e nuovo padrone, un po’ come nel sistema di vita di allora: il vecchio si adattava ai giovani moderni  e il giovane si modellava sul vecchio, con rispetto e forza.”

A proposito di scarponi, gli spalloni riconoscevano le orme lasciate sul terreno: se erano di un finanziere, erano diverse da quelle dei normali scarponi perché le suole avevano la tassellatura a forma di stellette simili a quelle appuntate sulla divisa.

Gli Scarponi sono i protagonisti di un episodio che riguarda la mamma dell’autore del libro sopracitato. Fatto che adesso può far sorridere, ma che all’epoca in cui è accaduto, poteva creare una situazione drammatica.

Allora giovane e forte, resistente alle lunghe camminate e abituata a portare pesi come tutti i contadini, seguì suo papà in un viaggio oltre confine a Cimalmotto-Campo Vallemaggia.

Partirono di notte a al Passo della Fria furono sorpresi da una copiosa nevicata. Nonostante ciò continuarono il cammino fino ad arrivare ad una baita dell’alpe Cravariola. Lì si ripararono e accesero il fuoco per scaldarsi e asciugarsi un poco. Subito si tolsero i scarponi e li misero vicinissimo al fuoco per far si che asciugassero in fretta. Presi dalla stanchezza e confortati dal calduccio delle fiamme che divoravano il duro larice, si assopirono entrambi; al risveglio la sgradevole sorpresa: uno scarpone della ragazza era caduto nel fuoco che aveva così bruciato parte della tomaia.

Da lì in poi potete immaginare: pezzi di stracci trovati sul posto a fasciare il piede, piede infilato nello scarpone squarciato e legato con pezzi di spago e fil di ferro in modo che “chiudesse la bocca” e via a completare il viaggio d’andata e poi il ritorno, sempre con il tempo inclemente ad accompagnarli.

E se “la bocca” dello scarpone rimaneva abbastanza chiusa, quella di chi lo calzava è rimasta, per quasi tutto il “viacc” aperta a gridare la sofferenza e a dar voce al pianto. Anche questo succedeva in tempi difficili.

La ragazza ha terminato il viaggio, ha comprato e consumato ancora tante scarpe, ma da allora fino al suo ultimo giorno ha avuto problemi con il piede che in quel tempo lontano aveva subito un inizio di congelamento e ne ha sempre portato ben visibile i segni: due dita insensibili e di quel colore violaceo che sapeva di male e tante fatiche.